Il nuovo libro di Nicoletta Orlandi Posti
Prefazione di Erri De Luca

Intervista di Eric Caldironi, Il gruppo, 13 Luglio 2013

Il sangue politico.
Intervista a Nicoletta Orlandi Posti

By Eric

Benvenuta Nicoletta e grazie di aver accettato il nostro invito.
Ho letto il tuo libro in due giorni. Ero vicino alla fine già il primo giorno, ma il quinto capitolo mi ha bloccato. È il capitolo dell’incidente, nel quale trovano la morte Gianni Aricò, Annalise Borth, Angelo Casile, Franco Scordo e Luigi Lo Celso. Questo capitolo non permette di procedere oltre. Bisogna fermarsi, chiudere il libro e riflettere. Sfido chiunque vorrà confrontarsi con questo testo ad andare oltre senza rendere indispensabile una sosta alla fine di esso. In qualche modo gran parte del nostro senso di appartenenza alla storia resta vittima dello “strano” incidente insieme agli anarchici della Baracca che, in viaggio verso Roma per consegnare un dossier “che avrebbe fatto tremare l’Italia”, morirono sull’autostrada del sole nei pressi di Ferentino. Tra il ’69 e il ’70 si scrivono le pagine più oscure della storia italiana. Da piazza Fontana ai  moti di Reggio, dalla strage di Gioia Tauro al golpe Borghese, il caso Marini, l’omicidio De Mauro e la tragica fine di Mastrogiovanni. Come scrive Erri De Luca nella Prefazione: ” i cinque anarchici qui ricordati furono parte di un movimento nuovo che sbarrò la strada al ritorno della dittatura. Il loro sangue politico qui affiora di nuovo e continua a testimoniare. Questo libro contiene, insieme alla verità, la volontà di giustizia, il lascito migliore di quell’epoca”.

Perché hai deciso di scrivere questo libro? Qual è stato il nucleo o la scintilla, se vogliamo, dalla quale sei partita?
La vicenda di Gianni, Angelo, Franco, Luigi e Annelise forse è poco conosciuta dai più, ma per  gli anarchici è una storia importante, è un pezzo della nostra storia. Ogni anno, il 26 settembre si organizzano manifestazioni e iniziative per ricordare la loro assurda morte. Di questa storia ne avevo già parlato nel mio precedente romanzo “A come amore”: l’avevo citata, ma non l’avevo approfondita. Il primo a metterla per iscritto, a mo’ di saggio, è stato nel 2001 Fabio Cuzzola, uno storico di Reggio Calabria. Ne Il sangue politico ho voluto ampliarla e narrarla in maniera differente raccogliendo le testimonianze e documentando l’attività politica e la vita privata di Franco, Angelo, Gianni e Annelise in contesti altri rispetto a quello calabrese e cioè i rapporti con il circolo anarchico romano 22 marzo di Valpreda, l’ingiusta detenzione a Roma per le bombe del 12 dicembre 1969, la militanza nella Fagi, l’organizzazione giovanile della Fai (la federazione anarchica italiana). Ho inoltre raccontato le inchieste portate avanti dai compagni per far luce sull’incidente di Ferentino. Inchieste come quelle di Lotta continua, di Giovanni Marini e Francesco Mastrogiovanni che sono costate care.

La vita e le azioni di questi ragazzi, all’interno di un quadro storico così difficile da raccontare e sul quale sono stati gettati fango e sabbia, assumono, per noi lettori, una dimensione titanica. Servono, nelle ultime pagine del libro, un concerto degli Stones e un accenno a Bike dei Pink Floyd per riportare, queste vite ad una dimensione comune. Da dove nasce la partecipazione politica di questi ragazzi?
Casile aveva quattordici anni quando, insieme a Aricò che ne aveva 16, bussò alla porta di Massimo Chillino: era lui che a Reggio Calabria, negli anni Sessanta rappresentava le idee dell’anarchismo più puro. Un incontro decisivo: i due ragazzini gli chiesero i testi fondamentali del pensiero libertario, Stirner, Malatesta, Bakunin, Kropotkin da leggere e rielaborare per costruirsene uno proprio. Gianni Aricò si attestò sulle posizioni di Pio Turroni, che insieme ad Armando Borghi, costituiva l’anima più critica ed individualista del pensiero libertario italiano. Angelo Casile invece si ispirava più al pensiero e all’azione di Bakunin. Ma con la loro giovane età ben presto misero in discussione anche le grande ideologie politiche. Si sentivano più attratti e cercavano di metabolizzare quello che stava accadendo in Europa. E così, interpretando questo cambiamento, diedero vita insieme a Franco, un entusiasta del pensiero anarchico, al gruppo spontaneo “Kropotkin” sul modello dei provos olandesi: unendo politica, arte e cultura cercano di mettere in discussione la società del tempo scuotendo le coscienze, costringendo a chi “inciampava” nelle loro manifestazioni a riflettere. Ecco allora Angelo che esce a passeggio con una gallina al guinzaglio, ecco la protesta al molo dove sono aperte al pubblico le navi da guerra, ecco il furto della bandiera americana al circolo del tennis… Questo all’esterno. All’interno si discuteva del dibattito, in realtà ancora oggi molto vivo, in corso tra le due diverse anime del movimento libertario: individualisti e organizzati che al tempo si rifacevano ai GIA (gruppi di iniziativa anarchica) e la FAI (federazione anarchica italiana). Decisero di aderire come gruppo Misefari (in onore dell’anarchico reggino) alla Fagi, il movimento giovanile della Fai.

Erri De Luca, autore della prefazione, non ha risparmiato la sua penna per considerare il tuo libro come esemplare riassuntivo dei numerosi testi sulla gioventù politica degli anni ’70. Oltre al libro, aggiunge, è il caso in sé ad essere riassuntivo di tutti. E la tua “volontà di appartenenza”, per usare le parole del prefatore, è viva e forte riga dopo riga, senza mai ostacolare la dettagliata ed esaustiva esposizione dei fatti. Come sei riuscita a renderti coeva ai fatti narrati?
Non è stato difficile perché sento questa storia come mia. La sento come una ferita ancora aperta. Le parole, i silenzi e gli occhi ancora lucidi di commozione dei compagni che hanno conosciuto e vissuto insieme ai cinque anarchici, le loro emozioni e l’orrore che hanno provato mi hanno accompagnato in tutta la scrittura del libro.

L’anarchismo è un pensiero molto complesso e ramificato nella sua dimensione europea. Qui siamo nello specifico. Circolo Kropotkin che poi diventa circolo Misefari. Molti aspetti biografici dei reggini (viaggi in Europa, senso di solidarietà, e, soprattutto, il forte spirito di opposizione alla guerra) sembrano sposare l’internazionalismo e il pacifismo di Bruno Misefari. Ovviamente credo che l’utilizzo del suo cognome per “battezzare” il gruppo ne sia una conferma. Che ne pensi? Quale spirito libertario aleggiava a Reggio Calabria?
Reggio Calabria era una città chiusa nel suo provincialismo. La politica cittadina, come descrive bene Cuzzola quegli anni, era dominata dalla destra, dalla Dc di stampo affaristico, dalla componente più rissosa del Msi e dei suoi tanti rivoli nati dalle organizzazioni più facinorose. In questo contesto si inserisce la vita del gruppo anarchico: Angelo, Franco e Gianni, che sono stati sulle barricate del maggio francese, che hanno viaggiato in Europa documentando le condizioni degli emigrati italiani, sentono il bisogno di cambiare lo stato delle cose anche a rischio di denunce e pestaggi. Subiscono diversi processi durante i quali, però, vengono difesi da illuminati avvocati anarchici reggini e supportati dai compagni di tutti Italia: per quello in cui furono accusati di apologia di reato per istigazione all’obiezione di coscienza arrivò a  Reggio Calabria un nutrito gruppo del 22 marzo, del Bakunin di Roma e anche Pietro Valpreda. Ma il loro attivismo si registra non solo a livello locale: furono loro a portare in Italia il famigerato Cohn Bendit che parlò al congresso della Fai di Carrara. Quali erano le loro battaglie? L’antimilitarismo, la lotta a fianco dei lavoratori vessati e dei disoccupati, le campagne per l’astensionismo alle elezioni andavano di pari passo contro lo scardinamento dei modelli di vita imposti dalla società anche all’interno della famiglia.

Nel libro dipingi alla perfezione l’atmosfera e il clima di entusiasmo che portava con sé l’attivismo militante di quegli anni, considerando la scarsità dei mezzi a loro disposizione. Ho avuto la stessa sensazione quando, leggendo Storia dell’Anarchia di Guilleminault, si parlava del Comitato Parigino dell’Internazionale: le officine, come sostenne Bibal, il cui nucleo ideologico costituì l’embrione della Prima Internazionale, radunate presso rue des Gravillieres in una sorta di scantinato con una piccola stufa di ghisa, una tavola di legno bianco, due sgabelli e quattro sedie tutte diverse. Qui la Baracca travalica la concezione di “sede” come la intendiamo oggi: questa palazzina Liberty mi è sembrata molto vicina all’idea di “comune”. In cosa era diverso l’impegno politico di allora rispetto a quello che conosciamo oggi?
Nella Reggio Calabria di quegli anni la Baracca era come un pugno allo stomaco del perbenismo. Era un centro sociale, un’abitazione dove convivevano ragazzi e ragazze (uno scandalo all’epoca), un luogo di scambio dove si discuteva politica, si scriveva, si produceva arte, cultura, musica, si organizzavano manifestazioni. Era un luogo aperto a tutti: lì si incontravano i delusi della sinistra istituzionale, lì tenevano le loro riunioni il gruppo del Manifesto espulso dal Pci, i compagni del Psiup. Alla Baracca venivano ospitati i giovani che in viaggio per il mondo si trovavano di passaggio a Reggio Calabria. Non credo che l’impegno politico oggi sia diverso. Di certo c’è che all’epoca la Baracca era considerata una provocazione costante al perbenismo, un posto che dava scandalo per la regola di non avere regole che si erano dati.

L’Operazione “Tora Tora”, come giustamente osservi nel libro, è stata fatta passare per un “golpe da operetta”, il maldestro tentativo di un gruppo di pensionati nostalgici di tornare in auge. Come stavano realmente le cose? Che cosa stava per succedere la notte tra il 7 e l’ 8 dicembre del 1970? La macchinazione del principe nero poteva contare su 1500 uomini messi a disposizione a Reggio dalla ‘ndrangheta calabrese, sulla complicità dei servizi segreti, apparati deviati dello Stato, Massoneria, numerosi gruppi di neofascisti, politici corrotti e, non per ultimo, sulla mafia siciliana. Che cosa abbiamo rischiato veramente?
Abbiamo rischiato di cadere nelle mani di una dittatura al pari del Portogallo, della Grecia, della Spagna e della Turchia. L’Italia, unica democrazia rimasta tra i Paesi affacciati sul Mediterraneo,  pur facendo parte della Nato aveva il più forte partito comunista di occidente e anche la più radicata sinistra rivoluzionaria e un golpe e l’instaurazione di un regime autoritario era il prezzo da pagare per alcuni (in Italia e all’estero) per arrestare la temutissima “avanzata rossa”. Quello che successe tra il 7 e l’8 dicembre del 1970 è ancora oggi uno dei tanti punti oscuri della storia repubblicana. Non è chiaro soprattutto perché fallì e chi lo fece fallire.  Gli italiani scoprirono il rischio che corsero le istituzioni repubblicane, mesi dopo. E tutte le inchieste e i processi sul progetto eversivo dell’estrema destra che si sono susseguiti negli anni si sono conclusi con un nulla di fatto. Nel 1984 la Corte d’Assise d’Appello assolse tutti gli imputati, derubricando il programma golpista come un “conciliabolo di quattro o cinque sessantenni”, ed anche la Cassazione confermò due anni dopo l’assurda  interpretazione.

La sollevazione popolare “pilotata” di Reggio Calabria funzionò da prova generale per il mancato colpo di Stato. Volendo entrare un po’ nel vivo dei fatti per far conoscere quello che è, in parte, il contenuto del libro: che tipo di relazione ebbe, l’attentato alla freccia del Sud in località Gioia Tauro con le barricate di Reggio? Qual era lo scopo del deragliamento?
La strage di Gioia Tauro rientrava nei piani della cosiddetta strategia della tensione. A Reggio Calabria, pochi giorni prima di Piazza Fontana (era la notte tra il 7 e l’8 dicembre del 1969) venne compiuto un attentato alla Questura durante il quale rimase gravemente ferito un agente di polizia. Fu quello uno dei primi test in Calabria di quel clima di bombe, repressione e caccia alle streghe che pervase l’intero Paese. Un test che proseguì sulle barricate di Reggio dove la rivolta popolare per il capoluogo venne manipolata e gestita per i propri tornaconti dalla destra eversiva e dalle ‘ndrine. Un pentito, Giacomo Lauro, disse ai magistrati che il deragliamento di Gioia Tauro fu fatto dalla ‘ndrangheta  su commissione del Comitato d’azione per il Capoluogo e rivelò “con certezza che già nel ’69 a Reggio Calabria nell’estrema destra eversiva c’era il progetto di seminare il panico e di una possibile rivolta armata. La ‘ndrangheta era favorevole a questo disegno e in particolare al golpe Borghese”.

Il servizio di contro informazione disposto dai ragazzi della Baracca durante quello che hai definito come uno dei più grandi moti di Piazza del ‘900 meridionale, potrebbe essere additato come l’evento responsabile della condanna a morte per i cinque anarchici? È in questo frangente che i gruppi dei “boia chi molla” e, in primis, Franco e Zerbi, hanno mangiato la foglia?
I ragazzi della Baracca avevano scoperto che molti dei facinorosi che si agitavano sulle barricate a Reggio avevano partecipato ad un addestramento nella Grecia dei Colonelli. Avevano smascherato la relazione tra destra eversiva e la criminalità organizzata e soprattutto avevano capito che il deragliamento di Gioia Tauro era una strage al pari di quella di piazza Fontana e cioè fatta dai fascisti con un fine ben preciso. “Abbiamo scoperto cose che faranno tremare l’Italia”, disse Gianni alla madre pochi giorni prima di morire. Purtroppo il dossier che avevano messo su, insieme alle fotografie che scattarono in città e in Sicilia (dove contemporaneamente veniva tolto di mezzo Mauro De Mauro che aveva scoperto il progetto del golpe Borghese) è scomparso.  Di certo c’è che anche i giudici che si occuparono di Gioia Tauro ipotizzarono un collegamento con la morte dei cinque anarchici nello strano incidente stradale. Il responsabile della direzione Antimafia calabrese Salvo Boemi definì logica e plausibile l’ipotesi che anche l’incidente di Ferentino, così come quello Gioia Tauro, fosse un attentato:  “Sono convinto che quei cinque giovani avessero trovato dei documenti importanti. Non riesco a spiegarmi in altro modo la sparizione di tutte le carte che trasportavano nella loro utilitaria. È un caso che avrei desiderato approfondire, ma esistono insormontabili problemi di competenza»”.  La competenza era infatti della procura di Frosinone e la Dna calabrese poteva occuparsene solo se fossero state ritrovate le carte del dossier sparito. E quindi niente da fare. Anche per la loro morte nessun colpevole.

In conclusione, ringraziandoti per la disponibilità, un’ultima domanda: quanto è importante e necessaria, secondo te, ora più che mai, la conoscenza e la memoria di queste pagine macchiate dal sangue politico?
Credo che oggi, più che mai, sia necessario ricordare e mantenere viva la memoria di chi capì prima di altri che l’Italia, un Paese che aveva sconfitto sul campo il fascismo, non lo aveva però estirpato, consentendo a beceri individui assetati di potere e di sangue di farlo rinvigorire e crescere fino ai giorni nostri dove convivono vecchie e nuove dittature con la loro carica di violenza e disumanità.
Grazie Nicoletta per aver scritto il libro e per aver accettato il nostro invito.
di Eric Caldironi



IL SANGUE POLITICO

Storia di cinque anarchici e di un dossier scomparso

di Nicoletta Orlandi Posti

Editori Internazionali Riuniti

pp. 256

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